Articolo precedente
Marco, per molti anni ti sei occupato professionalmente di sviluppo organizzativo, prima come consulente, poi all’interno delle aziende. Come vedi oggi le grandi organizzazioni del 3° millennio?
Negli ultimi 150 anni, diciamo dalla loro apparizione sull’onda della prima rivoluzione industriale, hanno già attraversato periodi di profonda trasformazione, temo però che questa volta siamo di fronte ad un fenomeno profondamente diverso, che mette in discussione i paradigmi fondanti dell’organizzazione aziendale… e forse anche del sistema sociale.
Mi sembra un’affermazione forte, in che cosa trovi che i giorni che stiamo vivendo siano diversi?
Penso sia l’effetto combinato di tre cambiamenti che stanno avvenendo contemporaneamente, il primo riguarda l’organizzazione aziendale, ove per la prima volta viene seriamente messo in discussione il paradigma della “burocrazia” Weberiana, basato su regole, processi e procedure che garantivano sia efficienza, replicabilità ed efficacia alle organizzazioni, sia stabilità ed equilibrio ai lavoratori. Ora che i clienti richiedono unicità e istantaneità nella soluzione dei loro bisogni, questo paradigma organizzativo è più una barriera che un abilitatore per il successo delle aziende.
E gli altri due cambiamenti che citavi?
Innanzitutto la velocità, tutto intorno a noi cambia molto velocemente, i prodotti, i processi, la tecnologia, la competizione e, incredibilmente, anche il contesto normativo. Le trasformazioni precedenti non sono state così veloci. Anche la terza rivoluzione industriale, che ha mutato profondamente sia il mondo del lavoro che la società stessa, ha lasciato spazio a più di una generazione perché il cambiamento fosse assorbito dagli individui. Già interi mestieri sono spariti, pensa ai linotipisti, alla dattilografia, solo per fare alcuni esempi, ma chi faceva quei mestieri ha raggiunto la quiescenza senza doversi reinventare nel corso della sua vita lavorativa. Infine, il terzo grande cambiamento, riguarda la centralità dell’azione umana rispetto ai processi produttivi. Il “machine learning” e l’intelligenza artificiale in pochissimi anni diventeranno centrali nel funzionamento delle aziende e questo avrà profonde implicazioni, non solo perché in termini generali si ridurrà lo “stock” di lavoro disponibile, ma soprattutto perché cambierà quello che le aziende chiederanno ai propri collaboratori.
In questo contesto, c’è ancora un ruolo per la funzione Risorse Umane?
Rivelerò un po’ il mio retaggio da ex consulente rispondendoti “dipende”. Dipende, perché se per funzione Risorse Umane hai in mente quella Direzione che governa i classici processi di performance management, compensation, amministrazione del personale ed opera al servizio dei line manager nelle attività di recruiting, beh… non credo possa portare grande valore aggiunto, per la semplice ragione che operando a traino dell’impresa non potrà che rappresentare un elemento di ulteriore rallentamento, in un mondo che invece sta accelerando. Credo invece ci sia uno spazio molto importante che le Risorse Umane possono occupare in termini strategici, se opereranno come anticipatori del cambiamento e dell’innovazione sia sul fronte organizzativo che su quello gestionale. Sarà però loro compito spingere l’azienda verso la modernità, sfidando in chiave prospettica i line manager, più portati, per la natura del loro ruolo, a guardare gli orizzonti di breve termine.
Ma questo tipo di posizionamento non rischia di creare situazioni di conflitto, o quantomeno di attrito con le altre funzioni aziendali?
Sicuramente questo rischio esiste e un ruolo chiave nel limitarlo spetta al vertice aziendale, che definisce la vision e indica la strada da seguire verso l’orizzonte di lungo periodo. In questo senso una grande sintonia tra il vertice e la funzione Risorse Umane è fondamentale. Va però tenuto presente che, per la velocità dei cambiamenti di cui abbiamo parlato prima, un certo stato di tensione e di squilibrio sono il nuovo paradigma a cui tutti dovranno abituarsi. Un team di management che funziona bene deve anelare all’equilibrio… senza mai raggiungerlo.
Stai descrivendo un contesto molto “ansiogeno”, l’individuo naturalmente ricerca sicurezza e stabilità, non è nato per vivere in condizioni strutturali di “instabilità”. Che risposta possono dare le Risorse Umane a questo problema?
Le aziende hanno investito molto negli ultimi anni in formazione comportamentale, occupandosi di tematiche come la leadership, il lavoro di team, l’innovazione e l’apertura al cambiamento. Credo che sia stato trascurato un tema emergente e di carattere prevalentemente individuale, ovvero la gestione dello stress. Nei prossimi anni dovremo lasciare all’auto formazione quel che concerne lo sviluppo professionale e comportamentale ed investire in maniera più importante in servizi e strumenti che aiutino i nostri collaboratori a convivere con lo stress.
Che tipo di persone serviranno, quindi, alle aziende nei prossimi anni?
Oggi c’è ancora molta focalizzazione sulle professioni emergenti: data scientist, CX analyst, UX designer, risk manager. Sono risorse scarse, che appaiono come imprescindibili e per le quali c’è, oggi, una grande competizione tra imprese sul mercato del lavoro. A me sembra una visione un po’ miope; credo si sia posta una eccessiva enfasi negli ultimi 20 anni sull’importanza dei “knowledge worker”. Ad esempio, lo scorso anno a Berkeley ho incontrato un luminare dell’intelligenza artificiale: parlando dell’orientamento allo studio di suo figlio adolescente, mi ha molto colpito che gli stesse sconsigliando di studiare medicina. La sua visione era che nei 15 anni necessari alla formazione del figlio, questa figura professionale sarebbe tendenzialmente scomparsa… sostituita dall’Intelligenza Artificiale. Non so se nel caso specifico avrà ragione, solo il tempo ce lo dirà, però credo che tutti i lavori che si basano sulla conoscenza verranno ridimensionati. Le AI conosceranno più cose, le elaboreranno più velocemente e faranno meno errori di qualunque essere umano; su quel piano non potremo competere.
Le aziende a mio avviso devono riconsiderare le loro strategie di recruiting, considerando il tema della competenza una commodity e ricercando tra le persone che, di volta in volta, se ne fanno portatrici, alcune altre caratteristiche che sostengano l’employability nel tempo.
Ad esempio?
Ho visto recentemente un video di Jack Ma che a Davos illustrava la sua visione su quello che dovremmo insegnare ai nostri figli perché tra 30 anni possano competere con le “macchine”. Valori e convinzioni, pensiero critico, spirito di servizio, senso artistico… niente a che vedere con la conoscenza. Nel mio piccolo credo che, anche più a breve termine, due caratteristiche saranno da ricercare: curiosità e resilienza. La curiosità è necessaria perché le persone che entreranno nel mondo del lavoro oggi dovranno cambiare mestiere innumerevoli volte nel corso della loro vita professionale e senza quella naturale attitudine ad assorbirle come una spugna tutto quello che ti circonda, difficilmente riusciranno ad adattarsi al cambiamento e anzi ad assecondarlo. La resilienza perché, come dicevamo prima, assecondare i cambiamenti non è nella natura dell’uomo.
E tu sei una persona curiosa?
Ah ah…la domanda è tendenziosa, ma non mi sottrarrò alla risposta. Direi tendenzialmente di si, ma mentre quando ero più giovane mi veniva più naturale, ora mi devo sforzare di più. Forse con l’uso la spugna si è un po’ usurata. In compenso sono un po’ più carente sul fronte della creatività e del senso artistico. Speriamo che Jack Ma non abbia completamente ragione.
Cos’hai fatto di recente per “esercitare” la tua curiosità?
Ho cominciato a studiare il cinese. Cosa c’è di meglio per mantenersi flessibili e aperti al cambiamento se non studiare una lingua che è nella sua stessa struttura radicalmente diversa dalla nostra?
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Marco, per molti anni ti sei occupato professionalmente di sviluppo organizzativo, prima come consulente, poi all’interno delle aziende. Come vedi oggi le grandi organizzazioni del 3° millennio?
Negli ultimi 150 anni, diciamo dalla loro apparizione sull’onda della prima rivoluzione industriale, hanno già attraversato periodi di profonda trasformazione, temo però che questa volta siamo di fronte ad un fenomeno profondamente diverso, che mette in discussione i paradigmi fondanti dell’organizzazione aziendale… e forse anche del sistema sociale.
Mi sembra un’affermazione forte, in che cosa trovi che i giorni che stiamo vivendo siano diversi?
Penso sia l’effetto combinato di tre cambiamenti che stanno avvenendo contemporaneamente, il primo riguarda l’organizzazione aziendale, ove per la prima volta viene seriamente messo in discussione il paradigma della “burocrazia” Weberiana, basato su regole, processi e procedure che garantivano sia efficienza, replicabilità ed efficacia alle organizzazioni, sia stabilità ed equilibrio ai lavoratori. Ora che i clienti richiedono unicità e istantaneità nella soluzione dei loro bisogni, questo paradigma organizzativo è più una barriera che un abilitatore per il successo delle aziende.
E gli altri due cambiamenti che citavi?
Innanzitutto la velocità, tutto intorno a noi cambia molto velocemente, i prodotti, i processi, la tecnologia, la competizione e, incredibilmente, anche il contesto normativo. Le trasformazioni precedenti non sono state così veloci. Anche la terza rivoluzione industriale, che ha mutato profondamente sia il mondo del lavoro che la società stessa, ha lasciato spazio a più di una generazione perché il cambiamento fosse assorbito dagli individui. Già interi mestieri sono spariti, pensa ai linotipisti, alla dattilografia, solo per fare alcuni esempi, ma chi faceva quei mestieri ha raggiunto la quiescenza senza doversi reinventare nel corso della sua vita lavorativa. Infine, il terzo grande cambiamento, riguarda la centralità dell’azione umana rispetto ai processi produttivi. Il “machine learning” e l’intelligenza artificiale in pochissimi anni diventeranno centrali nel funzionamento delle aziende e questo avrà profonde implicazioni, non solo perché in termini generali si ridurrà lo “stock” di lavoro disponibile, ma soprattutto perché cambierà quello che le aziende chiederanno ai propri collaboratori.
In questo contesto, c’è ancora un ruolo per la funzione Risorse Umane?
Rivelerò un po’ il mio retaggio da ex consulente rispondendoti “dipende”. Dipende, perché se per funzione Risorse Umane hai in mente quella Direzione che governa i classici processi di performance management, compensation, amministrazione del personale ed opera al servizio dei line manager nelle attività di recruiting, beh… non credo possa portare grande valore aggiunto, per la semplice ragione che operando a traino dell’impresa non potrà che rappresentare un elemento di ulteriore rallentamento, in un mondo che invece sta accelerando. Credo invece ci sia uno spazio molto importante che le Risorse Umane possono occupare in termini strategici, se opereranno come anticipatori del cambiamento e dell’innovazione sia sul fronte organizzativo che su quello gestionale. Sarà però loro compito spingere l’azienda verso la modernità, sfidando in chiave prospettica i line manager, più portati, per la natura del loro ruolo, a guardare gli orizzonti di breve termine.
Ma questo tipo di posizionamento non rischia di creare situazioni di conflitto, o quantomeno di attrito con le altre funzioni aziendali?
Sicuramente questo rischio esiste e un ruolo chiave nel limitarlo spetta al vertice aziendale, che definisce la vision e indica la strada da seguire verso l’orizzonte di lungo periodo. In questo senso una grande sintonia tra il vertice e la funzione Risorse Umane è fondamentale. Va però tenuto presente che, per la velocità dei cambiamenti di cui abbiamo parlato prima, un certo stato di tensione e di squilibrio sono il nuovo paradigma a cui tutti dovranno abituarsi. Un team di management che funziona bene deve anelare all’equilibrio… senza mai raggiungerlo.
Stai descrivendo un contesto molto “ansiogeno”, l’individuo naturalmente ricerca sicurezza e stabilità, non è nato per vivere in condizioni strutturali di “instabilità”. Che risposta possono dare le Risorse Umane a questo problema?
Le aziende hanno investito molto negli ultimi anni in formazione comportamentale, occupandosi di tematiche come la leadership, il lavoro di team, l’innovazione e l’apertura al cambiamento. Credo che sia stato trascurato un tema emergente e di carattere prevalentemente individuale, ovvero la gestione dello stress. Nei prossimi anni dovremo lasciare all’auto formazione quel che concerne lo sviluppo professionale e comportamentale ed investire in maniera più importante in servizi e strumenti che aiutino i nostri collaboratori a convivere con lo stress.
Che tipo di persone serviranno, quindi, alle aziende nei prossimi anni?
Oggi c’è ancora molta focalizzazione sulle professioni emergenti: data scientist, CX analyst, UX designer, risk manager. Sono risorse scarse, che appaiono come imprescindibili e per le quali c’è, oggi, una grande competizione tra imprese sul mercato del lavoro. A me sembra una visione un po’ miope; credo si sia posta una eccessiva enfasi negli ultimi 20 anni sull’importanza dei “knowledge worker”. Ad esempio, lo scorso anno a Berkeley ho incontrato un luminare dell’intelligenza artificiale: parlando dell’orientamento allo studio di suo figlio adolescente, mi ha molto colpito che gli stesse sconsigliando di studiare medicina. La sua visione era che nei 15 anni necessari alla formazione del figlio, questa figura professionale sarebbe tendenzialmente scomparsa… sostituita dall’Intelligenza Artificiale. Non so se nel caso specifico avrà ragione, solo il tempo ce lo dirà, però credo che tutti i lavori che si basano sulla conoscenza verranno ridimensionati. Le AI conosceranno più cose, le elaboreranno più velocemente e faranno meno errori di qualunque essere umano; su quel piano non potremo competere.
Le aziende a mio avviso devono riconsiderare le loro strategie di recruiting, considerando il tema della competenza una commodity e ricercando tra le persone che, di volta in volta, se ne fanno portatrici, alcune altre caratteristiche che sostengano l’employability nel tempo.
Ad esempio?
Ho visto recentemente un video di Jack Ma che a Davos illustrava la sua visione su quello che dovremmo insegnare ai nostri figli perché tra 30 anni possano competere con le “macchine”. Valori e convinzioni, pensiero critico, spirito di servizio, senso artistico… niente a che vedere con la conoscenza. Nel mio piccolo credo che, anche più a breve termine, due caratteristiche saranno da ricercare: curiosità e resilienza. La curiosità è necessaria perché le persone che entreranno nel mondo del lavoro oggi dovranno cambiare mestiere innumerevoli volte nel corso della loro vita professionale e senza quella naturale attitudine ad assorbirle come una spugna tutto quello che ti circonda, difficilmente riusciranno ad adattarsi al cambiamento e anzi ad assecondarlo. La resilienza perché, come dicevamo prima, assecondare i cambiamenti non è nella natura dell’uomo.
E tu sei una persona curiosa?
Ah ah…la domanda è tendenziosa, ma non mi sottrarrò alla risposta. Direi tendenzialmente di si, ma mentre quando ero più giovane mi veniva più naturale, ora mi devo sforzare di più. Forse con l’uso la spugna si è un po’ usurata. In compenso sono un po’ più carente sul fronte della creatività e del senso artistico. Speriamo che Jack Ma non abbia completamente ragione.
Cos’hai fatto di recente per “esercitare” la tua curiosità?
Ho cominciato a studiare il cinese. Cosa c’è di meglio per mantenersi flessibili e aperti al cambiamento se non studiare una lingua che è nella sua stessa struttura radicalmente diversa dalla nostra?
Società di Scienze
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