Mi presento. Sono Gianpiero Lorandi, ho 66 anni, sono sposato con una figlia di 37 anni che da tempo vive e lavora a Londra. Volendo fare la sintesi massima della mia esperienza professionale dirò che sono un ingegnere nucleare, laureato nel 1978 al Politecnico di Torino, professione che ho avuto il piacere di esercitare fino al 1988 e che è stata bruscamente interrotta dal referendum sull’abbandono del nucleare per la generazione dell’energia elettrica. Dei dieci anni di professione nucleare ne ho trascorsi circa sette in US, lavorando presso la General Electric Water Reactor Division e la Westinghouse Nuclear Fuel Division. A seguito del risultato del referendum mi sono visto costretto a reinventarmi in termini professionali. Ho puntato sul vendere la mia capacità di gestire grandi programmi internazionali, complessi tecnologicamente e contrattualmente, da sviluppare in partnership con altre grandi aziende. Sono entrato nella allora Aeritalia e da lì sono salito occupando posizioni apicali di Chief Business Officer della Galileo Avionica (turnover >500M€), Executive Director Marketing – Sales and Business Development della Selex ES (portafoglio ordini > 10Mld€) e, infine, Amministratore Delegato/Managing Director della Divisione Sistemi di Difesa della Leonardo SpA.
Degli anni professionali trascorsi in US che cosa L’ha colpita della cultura industriale americana?
Ora posso rispondere perché ho avuto tempo per fare confronti tra il mondo del lavoro americano e quello italiano. Gli aspetti favorevoli che ho trovato molto praticati in US, direi naturalmente praticati, sono il rispetto professionale, il focus sulla esecuzione dei tasks assegnati nell’ambito di un team di progetto multifunzionale e non dal responsabile gerarchico, la obiettività del processo di valutazione del potenziale e delle performances, la valorizzazione del doppio percorso di carriera: i.e. manager o professional, la meticolosa documentazione di processi/pratiche e la corrispondente diffusa disciplina di utilizzo, l’attenzione del top/middle management allo sviluppo delle risorse giovani e dei talenti, il ricorso regolare alla pratica della job rotation per lo sviluppo delle competenze trasversali dei futuri manager, una sana pratica di stesura dei piani di successione. Tutti questi sono aspetti che nel mondo del lavoro italiano, anche dopo trent’anni, ancora zoppicano e sono debolmente praticati.
A proposito di dimensioni aziendali, quali sono gli aspetti a cui si deve fare attenzione nel ‘diventare grandi’?
Io personalmente ho sempre lavorato in aziende di grandi dimensioni, ma ho anche sempre avuto quotidiani rapporti con aziende di piccole dimensioni. Diventare grandi è una meta interessante per ogni piccola e media azienda. La crescita prevede però cambiamenti di approccio e mentalità importanti, e contiene alcuni rischi di fronte ai quali è meglio non farsi trovare impreparati per gestire al meglio il passaggio. Tre sono gli aspetti particolarmente importanti: l’orizzonte temporale; la tipologia di relazioni e il rapporto con le responsabilità.
Partiamo dall’orizzonte temporale. L’azienda grande è focalizzata sia sul breve che sul lungo termine: deve crescere, ma deve anche rendere sostenibile nel tempo la crescita. Il rischio è che il termine “sostenibile” prenda il sopravvento rispetto a “crescita”, e che l’organizzazione, la pianificazione, la definizione di come lavorare diventino il fine e non il più mezzo per continuare a crescere. E che burocrazia e rigidità di processo prendano il sopravvento.
Un secondo aspetto è legato alla tipologia delle relazioni. Nelle aziende grandi e che crescono, network e reti di relazione sono molto ampie e diversificate. La complessità del contesto aumenta. Diventa più difficile comunicare, raccogliere i segnali, creare scambio e condivisione di valori, di competenza, di punti di vista. Il rischio in questo caso è perdere contatto e scambio di informazioni tra manager e collaboratori e tra azienda e mercato esterno. La soluzione non è cercare di semplificare la complessità, perché si creerebbero compartimenti stagni, specializzazioni rigide e ruoli poco interscambiabili. Penso che la vera leva è di lavorare su una cultura del confronto, con regole di comunicazione che enfatizzino lo scambio, consapevoli che relazioni numerose e complesse portano ricchezza e nuove opportunità.
Il terzo aspetto è il tema della responsabilità su comportamenti e decisioni. Un’azienda piccola può delegare la responsabilità a chi la guida, a chi ha avuto l’idea e al piccolo gruppo che si è aggregato attorno al progetto iniziale. Nell’azienda che diventa grande la responsabilità deve essere distribuita e diffusa. È nelle singole persone e nei ruoli che rivestono, nelle loro azioni e comportamenti. Diversamente, l’azienda non riesce a lavorare: avrebbe processi decisionali troppo lunghi, controlli esagerati e allora sì, diventerebbe subito burocratica e rigida. La miglior difesa rispetto ai rischi del diventare grandi, in tutti i sensi, è una cultura dove la responsabilità è diffusa, e dove il feedback tra ruoli e il confronto su punti di vista differenti sono considerati elementi di valore. Questa è la principale motivazione per il ricorso alla metafora dell’IPT (integrated project team) per la ‘business execution’ nelle aziende di grandi dimensioni.
Nelle aziende di grandi dimensioni e ad alta complessità, come quelle della Difesa, quali sono gli aspetti determinanti per la sostenibilità del business?
Per rispondere a questa domanda bisognerebbe scrivere un trattato. Cercherò di restringere lo spettro della risposta a pochi aspetti ma essenziali, a mio parere, per la crescita e la sostenibilità della crescita del business. Oltre agli aspetti che qui esporrò, ce ne sono molti altri che, sono convinto, sono importanti ma che risultano anche condivisi in termini largamente più diffusi.
Mi soffermerò su tre domini del tipico ciclo di vita del business: la crescita del portafoglio ordini, la crescita dei volumi e della redditività nella esecuzione dei contratti/programmi e la crescita della disponibilità in servizio dei prodotti al Cliente durante tutto il tempo di esercizio degli stessi.
Una prima importante ‘verità’ emerge in modo nitido: non c’è sostenibilità senza crescita. La crescita delle performance legate ai tre aspetti esposti è la misura della bontà delle azioni industriali intraprese e, quindi, in ultima analisi la certificazione del successo della strategia di sostenibilità messa in atto. L’aspetto della sostenibilità si concretizza nella ‘sostenibilità della crescita’ nel tempo. Richiamo il punto di attenzione citato nella risposta alla domanda precedente: i.e. il focalizzarci sulla crescita ha il benefico effetto di trascinare con sé anche la sostenibilità. Il viceversa non è privo di rischi!
Bene! Partiamo dalla crescita del portafoglio ordini. Secondo Lei quale è la ricetta vincente?
Direi che la ricetta vincente è una combinazione di tre ‘ingredienti’, tutti e tre da esercitarsi al livello di qualità ‘eccellente’: i.e. competitività, innovazione e integrità. Una società che domina l’eccellenza nella competitività, nella innovazione (non solo tecnologica) e nella integrità nel business è una società che cattura la soddisfazione dei Clienti e, di conseguenza, anche quella degli azionisti.
La competitività, nella sua esperienza, su quali aspetti si deve fondare per supportare al meglio la sostenibilità del business?
I fattori classici di competitività, come ben sappiamo, sono la qualità (dei prodotti, delle tecnologie, delle prestazioni, della affidabilità in servizio…), il prezzo (dei prodotti, dei servizi e dell’intero ciclo di vita) e i tempi (di reazione, di negoziazione e delle consegne). Questi sono i fattori industriali della competitività, assolutamente necessari ma non più sufficienti per vincere ordini. Sempre più spesso è apprezzato dai Clienti il valore della credibilità professionale di coloro che mettono la loro faccia davanti a quella dei Clienti stessi. La credibilità professionale può essere declinata attraverso tre pilastri comportamentali che valorizzano i fattori industriali di competitività: essere affidabile, essere onesto e mantenere le promesse. Spesso, anche la combinazione delle eccellenze nei fattori industriali di competitività e nella credibilità professionale non è sufficiente, gioca un ruolo decisivo l’aspetto della reputazione della società percepita dal Cliente. La reputazione della società può essere rappresentata attraverso quattro pilastri disciplinari: l’innovazione, la stabilità finanziaria, la responsabilità sociale e l’integrità nella conduzione del business.
L’innovazione, nella Sua esperienza, come si può declinare per supportare al meglio la sostenibilità del business?
L’innovazione è un termine che va molto di moda: è inteso e praticato in numerose e diverse forme. In alcuni casi anche abusato.
Io qui voglio dare la mia interpretazione, interpretazione che trae le sue fondamenta nel dominio di mercato in cui ho lavorato negli ultimi 30 anni: la difesa e sicurezza, ma che, mutatis…mutandis, può essere efficacemente esteso anche ad altri domini di business/mercato.
Nel mondo della difesa e sicurezza, i Clienti stanno diventando molto complessi da affrontare! Perché? Semplicemente perché le minacce da cui ci devono difendere sono diventate molto complesse! Allora, cosa mai vorranno da noi i nostri Clienti? Semplice! Vogliono sempre la stessa cosa: disporre di efficaci mezzi di contrasto delle minacce odierne e future a costi ragionevoli.
Da queste semplici, ma ragionevolmente realistiche, considerazioni emerge che i Clienti/Mercati parlano delle minacce e della loro evoluzione. Parlano sia di minacce che evolvono in ‘step incrementali’ sia di quelle, ben più temibili, nuove e più radicali. Allora la vera INNOVAZIONE, quella con la I maiuscola, nel nostro dominio di mercato (della Difesa e Sicurezza) è quella che ci porta a possedere la massima conoscenza della evoluzione della minaccia. In un motto: OWN THE THREAT!
La trasformazione che dobbiamo fare per pilotare l’innovazione nelle nostre tecnologie, nei nostri prodotti e nelle nostre soluzioni, è quella di possedere la massima conoscenza della evoluzione delle minacce nuove e radicali che stanno mettendo in campo soprattutto, in ogni fase macro-politica, nazioni a noi ostili. A quel punto, la vera innovazione, sia essa tecnologica che tecnica di prodotto o d’altro, è quella che ci mette in condizioni di offrire soluzioni efficaci di contrasto alle varie minacce presenti e future. Arrivare a questa condizione, lasciatemi dire, di supremazia della capacità di contrasto verso tutte le minacce emergenti, prima che lo facciano i nostri concorrenti produce un ‘salto quantico’ di competitività, di crescita del portafoglio ordini e di crescita della sostenibilità del business.
Catturare la massima conoscenza sulla evoluzione delle minacce future richiede il ricorso all’intima collaborazione con le istituzioni nazionali militari e di sicurezza e ad una efficace disciplina dell’intelligence.
Bene! Questo è il percorso strategico che porta a selezionare le direttrici di innovazione vincenti in un contesto industriale. Quali spunti di riflessione proporrebbe alle singole risorse su come predisporsi a contribuire all’innovazione?
La capacità di innovare è ormai la regola per le società, i manager, gli imprenditori, i giovani startupper che vogliono non solo rimanere competitivi ma anche emergere in questa era iper-globalizzata. Innovazione radicale e creatività sono fattori che stravolgono il quotidiano, che rompono gli schemi precostituiti, che portano aria nuova, che cambiano i paradigmi fino ad oggi utilizzati. Sostituire l’esistente con qualcosa di nuovo e originale, che in breve termine sarà già vecchio e pronto al ricambio. Perché la globalizzazione è anche velocità, qualche volta caos, e il pensiero creativo ha bisogno di essere nutrito e stimolato in continuazione per mantenersi vigile e pronto alla nuova idea. L’innovazione non è né scontata, né automatica e sicuramente anche quando se ne parla bisogna avere qualche accorgimento sul linguaggio che si usa.
Ci sono tre aspetti che in modo particolare possono compromettere la motivazione ad innovare: le “buone pratiche”, il “ritorno degli investimenti (ROI)” e “quando ho lavorato per” sarebbero assolutamente da evitare. Per creare un ambiente innovativo è importante respirare una cultura che non soffochi il pensiero creativo ed essere consapevoli che molto spesso le parole possono mandare messaggi facili al fraintendimento che fanno desistere dall’azione innovativa.
Perché si dovrebbe evitare di parlare di ‘buone pratiche’? Perché quando si diventa consapevoli che la pratica portata avanti da qualcuno è talmente buona da essere presa come esempio sono già trascorsi almeno due, tre o quattro anni e, a quel punto, non è detto che sia più una ‘best practice’, anzi molto probabilmente è già stata sostituita da un’altra pratica che ancora non si conosce. Le ‘best practice’ hanno un forte potere ispiratore quando si utilizzano in settori diversi dal proprio, in quel momento sì che possono far nascere le migliori idee. Io stesso ho testato questo forte potere ispiratore che, se di interesse per capire meglio l’affermazione, vi illustrerò dopo.
Il ritorno dell’investimento (ROI) invece blocca l’innovazione perché se diventa un parametro di scelta si sarà sempre più preoccupati per i soldi che non per l’idea da portare avanti. Qui l’esperienza di Google è illuminante. Dopo nove mesi dalla creazione di Google, i fondatori volevano vendere Google a Yahoo ma ritenendo basso il ROI non accettarono, non immaginando lontanamente il potere innovativo che invece aveva Google. E oggi lo vediamo ancora di più……… Google da solo ha una capitalizzazione di borsa superiore alle 6 più importanti aziende aerospaziali degli Stati Uniti ed è, di recente, entrato nel club ristretto delle società con una capitalizzazione sopra i Trillion Dollars.
Liberarsi del passato, anche linguisticamente parlando, è quello che bisogna fare quando si presenta un’idea nuova, perciò la frase “quando ho lavorato per” è assolutamente fuori contesto perché l’innovazione è prevalentemente ignota, non si sa dove può portare e confrontarla con qualcosa di passato è restrittivo, poco incoraggiante e per nulla creativo.
Siamo interessati a conoscere la proposta innovativa da Lei elaborata in un settore diverso. Ce la vuole raccontare?
Certamente. Dal 2008 al 2016 ho vissuto a Frascati e ogni giorno guidavo da casa al posto di lavoro, in via Tiburtina, appena fuori dal GRA. Io sono molto mattiniero e mi mettevo in moto alle 6:00 per il quotidiano trasferimento, sperando in cuor mio di evitare qualsiasi forma di traffico. Dopo qualche giorno mi sono dovuto arrendere all’evidenza: c’era già traffico a quell’ora, sia sulla bretella dell’A1 da San Cesareo al casello di Roma Sud, sia sul tratto del GRA esterno che porta dalla Romanina alla Tiburtina o alla Centrale del Latte (uscita consigliata). Allora mi sono incuriosito e ho studiato per qualche giorno il fenomeno. Sono arrivato alla conclusione che l‘intasamento del GRA già nelle prime ore mattutine (tipicamente dalle 7 alle 9:30) e in quelle serali (dalle 17 alle 20) di rientro era causato prevalentemente da due fenomeni, riconducibili ad una singola origine. Il deflusso dei veicoli dal GRA era lentissimo sia in entrata verso Roma che in uscita da Roma e la estrema lentezza era causata da due aspetti: il numeroso e confuso procedere delle motociclette, in entrambi i versi di marcia della Consolare (nel mio caso la Tiburtina), che passavano letteralmente in ogni spazio lasciato libero dagli autoveicoli; l’immissione lungo i due lati della consolare dei veicoli (due e quattro ruote) provenienti dalle numerose strade laterali senza la intermediazione di un semaforo. Questi due fenomeni costringevano il disciplinato flusso autoveicolare a continui e improvvisi rallentamenti, che si ripercuotevano su tutta la colonna di veicoli che marciava dietro.
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Cosa ho fatto, dopo aver circoscritto le cause scatenanti? Mi sono messo al computer e ho scaricato la struttura topologica del GRA. Per facilitare il compito la riporto qui, quella, tra le tante, sulle quali ho lavorato. Come si vede chiaramente, il GRA è caratterizzato dall’essere attraversato da numerose consolari che risultano abbastanza vicine e equamente distanziate su tutto l’anello stradale. Allora mi sono detto: come faccio a evitare il succedersi dei due fenomeni che rallentano, senza penalizzare la viabilità e le casse del comune di Roma, con interventi costosissimi e di lunga implementazione?
L’idea innovativa è scaturita quasi subito: all’interno del GRA dedicare ognuna delle consolari ad una sola direzione di marcia, alternando quelle che servono solo in entrata da quelle che servono in uscita. Ognuna delle consolari sarebbe stata organizzata con tre corsie di marcia: quella centrale, nella quale veniva convogliato il traffico che avrebbe percorso la consolare fino al centro o dal centro fino verso fuori il GRA; le due laterali avrebbero servito tutte le percorrenze intermedie. In questo modo su una consolare tutti i veicoli avrebbero percorso la stessa in una sola direzione: in ingresso verso il centro, in uscita verso mete esterne al GRA. E la avrebbero percorsa scegliendo la corsia più idonea alle loro esigenze. Ho inviato la proposta al Comune, ma non ho avuto ancora alcun riscontro!
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Ha citato anche la Integrità nella conduzione del business come fattore importante per catturare la soddisfazione del Cliente. Vuole spiegare meglio questo suo, credo piuttosto originale, pensiero?
Certamente. I clienti sono sempre più una comunità ricca di valori ed attenta ai principi etici. Sembrano dire: l’integrità prima di tutto! Allora, proviamo a chiarire cosa significhi integrità per loro. Integrità per i nostri Clienti significa: riportare in primo piano il loro punto di vista, i loro obiettivi, i loro bisogni e non i nostri; garantire ai nostri Clienti la consegna di ciò che è stato loro promesso; garantire ai nostri Clienti la trasparenza che cercano – dire loro la verità! Se poi allarghiamo a tutti gli Stakeholders, integrità significa produrre sostenibilmente beni e servizi rispettando i lavoratori, l’ambiente e tutti gli stakeholder territoriali. Parafrasando un motto coniato in US una decina di anni orsono: ‘good ethics is good business!’, mi verrebbe di svilupparlo ulteriormente con: ‘good integrity is better business!’.
Dopo aver parlato del portafoglio ordini, il secondo aspetto determinante per la sostenibilità del business che ha citato è la crescita dei volumi e della redditività in fase di execution di contratti/programmi.
Anche su questo argomento non c’è nulla da inventare, tutto è già stato scritto e riscritto più volte, da più autori e da numerosi angoli di vista tra loro complementari. Vorrei però cercare di dare, oggi, qualche “pillola di pragmatismo gestionale” maturata dall’esperienza che ho fatto in tutta la mia carriera professionale. Per gestire al meglio la crescita di una azienda medio-grande quattro sono gli aspetti sui quali focalizzarsi: l’andamento della marginalità di commessa tra la offerta e la execution, l’andamento del costo ricorrente proiettato del prodotto di cui è in corso lo sviluppo rispetto al costo target assegnato come obiettivo di competitività, il rapporto di conversione dell’EBITA in Free Operating Cash Flow (FOCF) e il capitale circolante. Questi quattro aspetti si possono tenere sotto osservazione a livello di unità di business in cui si è organizzata la società e a livello di società complessiva. Un deterioramento della marginalità di commessa dal valore negoziato in fase di acquisizione del contratto, è un sintomo di criticità nelle modalità di esecuzione della commessa (contratto) stessa. Quindi in tutti i casi in cui si verifica il deterioramento, si devono rapidamente intraprendere azioni di review su tutti gli aspetti potenzialmente influenti: i.e. integrità del processo di preventivazione in fase di offerta, adeguatezza della pianificazione delle attività, adeguatezza dello staffing e delle competenze delle risorse impegnate, adeguatezza delle metodologie e dei processi di esecuzione delle attività (sia di sviluppo, industrializzazione e/o produzione), adeguatezza di utilizzo regolare della disciplina di risk management. A fronte delle review, meglio se condotte da esperti indipendenti dalla specifica commessa/contratto, si devono elaborare e implementare le azioni di efficientamento identificate. Nei progetti di sviluppo prodotto, la massima priorità si deve dare al rispetto dei tempi di consegna della documentazione e delle unità (collettivamente riferite come ‘deliverables’) rispetto al controllo dei costi che si stanno spendendo. La vera variabile dominante è il tempo: se si rispettano i tempi si fa felice il Cliente e, molto probabilmente, si spende anche meno!
Nel corso di attività di sviluppo e/o di industrializzazione, l’aspetto che va assolutamente monitorato con regolarità è l’andamento del costo ricorrente di produzione proiettato del prodotto in via di sviluppo rispetto al costo target assegnato. Il costo target viene determinato in base a criteri elaborati attraverso la cosiddetta analisi competitiva. In sintesi: il prodotto deve arrivare sul mercato al momento giusto, con le prestazioni che il cliente richiederà in quel momento e con un prezzo affordable al momento dell’ingresso sul mercato. Il rischio di non avere, su questo aspetto, una best practice è troppo alto per non imporne l’utilizzo da parte del vertice aziendale, che si deve anche impegnare in prima persona a farne regolari reviews.
Il rapporto di conversione di EBIT in FOCF e il valore del capitale circolante sono tra loro correlati, quindi ne parlerò insieme. L’andamento di questi due fattori determina quanto attraente è una società per gli investitori (azionisti) istituzionali. Una società che dimostra con regolarità di saper convertire l’EBIT in FOCF e che mantiene il livello di capitale circolante alla pari dei migliori performers per quel settore di mercato (il mio, per intenderci, è l’Aerospazio e Difesa) risulta attirare l’interesse, quindi cospicui investimenti, da parte degli investitori istituzionali (fondi sovrani piuttosto che altri grandi fondi di investimento). Il valore di capitalizzazione di borsa di una società, è un fattore determinante la capacità della società stessa di finanziare i propri investimenti e la propria crescita senza dover ricorrere all’indebitamento. Come è noto, se una società per operare si indebita attraverso le banche o attraverso l’emissione di obbligazioni a lungo termine, deve con regolarità pagarne gli oneri indipendentemente dalle performance della società stessa. In altre parole, se ci si indebita con una banca per finanziare le attività industriali si devono pagare alla banca con regolarità le rate di ammortamento del prestito e le si devono pagare indipendentemente da quanto bene o male sta andando il business.
Se la società riesce, invece, ad attrarre finanziatori istituzionali privati (azionisti) attraverso la borsa, può finanziare la propria crescita industriale con quei soldi e il ritorno deciderlo attraverso la corresponsione annuale dei dividendi. Per un team di management, lavorare con i soldi degli investitori istituzionali (azionisti) è decisamente più allettante che lavorare con i soldi dei banchieri!
I banchieri decidono loro le modalità di restituzione del prestito, agli azionisti il ritorno lo decidi tu attraverso lo strumento dei dividendi. Sono consapevole che la sto mettendo in modo semplice, ma la semplicità serve a far arrivare subito il motivo per cui un team di management deve impostare iniziative di miglioramento continuo sia sulla massimizzazione del fattore di conversione di EBIT in FOCF che sulla minimizzazione del capitale circolante (che ‘intrappola’ esborsi di cassa in attesa che si materializzino i corrispondenti incassi attraverso la consegna di prodotti al Cliente) a livelli pari o migliori dei migliori performers di quello specifico settore di mercato.
Rimane l’ultimo aspetto determinante per la sostenibilità del business che ha citato, i.e. la crescita della disponibilità in servizio dei prodotti al Cliente. Cosa ci vuol dire, sinteticamente, su questo?
Le prestazioni in servizio operativo dei prodotti è l‘aspetto che più di ogni altro determina la reputazione della società e la soddisfazione del Cliente. Quindi, non ci si può accontentare di fornire i prodotti ai nostri Clienti nei tempi promessi, ci si deve assolutamente organizzare per addestrare, formare gli operatori all’uso e supportare l’utilizzo dei ns prodotti in tutta la loro vita operativa. È fondamentale non considerare questo aspetto come meno rilevante, magari per la società potrebbe anche esserlo dopo aver completato la fase di produzione che tiene impegnate tutte le componenti industriali, ma non lo è certamente per il Cliente! Lui ha investito per avere prodotti funzionanti o meglio, come si dice ora, pienamente ‘disponibili’ per tutto il tempo che ha pianificato di utilizzarli.
Peraltro, il business del supporto operativo e logistico è comunemente il business più redditizio, purché il prodotto consegnato faccia quello che deve e viva il tempo che il Cliente si aspetta. Se così non fosse, potrebbe anche trasformarsi nel business più doloroso! Importante, quindi, che durante le fasi precedenti, i.e. sviluppo e produzione, vengano date le giuste attenzioni agli aspetti di affidabilità e producibilità.
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